ANTONIO
BELLINGRERI *
Educare i giovani a riconoscere Gesù
Cristo
Riflessioni nel cinquantesimo della Dichiarazione Gravissimum Educationis
«Chi dice la gente che sia il Figlio
dell'uomo?»
Il grande
filosofo cristiano Sören Kierkegaard ha avuto il merito, fra gli altri, di
imporre la centralità e l'inevitabilità del giudizio personale su Gesù Cristo
come cuore di ogni riflessione che possa essere condotta sulla modernità in
generale e sulla propria attualità storica in particolare. Dopo questo evento, infatti,
«anche gli increduli» sono in qualche modo costretti a prendere posizione di
fronte a ciò che Gesù stesso ha detto di sé, di essere il Figlio di Dio, la Rivelazione definitiva
del suo Mistero. Una celebre pagina del Vangelo di Matteo ripropone la domanda
che il Maestro rivolge ai suoi discepoli nella regione di Cesarea di Filippo:
«Chi dice la gente che sia il Figlio dell'uomo?» (Mt 16, 13), Essa è posta ad
ogni uomo, anche a quanti non ne vogliono sapere, perché reputano di non essere
interessati punto alla questione; costoro però, dice icasticamente Kierkegaard,
già così esprimono il loro parere personale sul Cristo.
Si tratta, a ben vedere, di una domanda solo in apparenza semplice, in
realtà mostra subito tutta la sua carica di paradosso, sol che si rifletta al
commento che il Signore stesso fa della confessione di fede di Pietro: questi,
dice Gesù , non avrebbe saputo dir nulla di suo, a proposito della verità che
ha professato, se «il Padre stesso che è nei cieli» non glielo avesse rivelato.
Di quale verità si tratta allora se quell'uomo, Simon Pietro, – ma, come lui,
ogni uomo – ha bisogno di essere ispirato e illuminato, anzi «da Dio stesso
generato», come si legge nel prologo di Giovani (Gv 1, 13)?
«Maestro buono, che cosa devo fare per acquistare
la vita eterna?»
Ora, se Gesù è
veramente «il Cristo, il Figlio del Dio vivente», secondo la risposta di Pietro
e come Gesù stesso ha testimoniato di se stesso, cos'altro mai possiamo
chiedergli, in che cosa Egli potrà istruirci? Per rispondere a questa nuova
questione, si può ricorrere ad altre celebri pagine del Vangelo, questa volta
di Marco e di Luca, laddove viene narrato l'episodio del giovane ricco (Mc 10,
17-27; Lc 18, 18-25). Possiamo immaginarci che questo ragazzo abbia ascoltato,
o comunque abbia custodito nel suo preconscio spirituale, quella domanda
decisiva di cui si è detto sinora; nel suo incontro però ora è lui a porre una
domanda a Gesù: «Maestro buono, che cosa devo fare per acquistare la vita
eterna?» (Lc 18, 18). Si può subito affermare che questa è forse la domanda più
semplice, la più pertinente che si possa porre a Dio, credendo che Gesù stesso
è il Figlio di Dio.
Ricostruiamo per un momento, sia pure a grandi tratti, il profilo
esistenziale e culturale di questo giovane che interroga Gesù. Egli è
benestante, la sua vita non dovrebbe aver mai incontrato difficoltà serie di
sorta, almeno dal punto di vista materiale. Deve essere attratto però, in modo
irresistibile, da Gesù; ne ha sentito parlare, deve averlo ascoltato, è certo che
possa chiedere a Lui ciò di cui ha bisogno, per vincere un’inquietudine di
fondo che pure lo segna. Si può essere ricchi infatti e percepire che non è
così che si vive una vita piena, una vita intensa e davvero viva. Egli aspira a
questa piena fioritura dell'esistenza, ad un suo compimento, ma non sa quale
possa essere questa via o il segreto della sua felicità personale oggettiva.
Egli, come ogni uomo in questo mondo, ignora se stesso, è afflitto pertanto da
una inguaribile, a volte molesta, malinconia.
Nell'incontro con Gesù, accade qualcosa di inatteso, che immediatamente
gli si presenta come strabiliante. Egli riceve una risposta, soprattutto però
riceve, in un faccia a faccia decisivo con il «Maestro buono», che lo fissa
negli occhi, un atto d'amore profondo e intenso: «Gesù, fissatolo, lo amò» (Mc
10, 21). Si è accostato a Gesù, lo si è detto, non perché non conosca la Legge , egli conosce la legge
d'Israele, Mosé e i Profeti, ma ignora i recessi del suo cuore, non sa quale
sia il segreto della felicità.
Ora, nell'incontro e grazie al suo sguardo, Gesù gli rivela una verità
elementare, getta un fascio di luce potente nel suo essere profondo – mostrando
che il Cristo lo conosce ed è, rispetto a questa intimità, più vicino a lui di
quanto lui stesso possa esserlo. Nell'incontro il giovane ricco apprende che il
suo essere profondo è essere-amato-da-Dio,
perché di Lui è figlio prediletto; e per tale ragione, immediatamente egli
percepisce di essere povero, privato come è stato sinora di questa conoscenza e
di questo amore e insieme bisognoso di permanere in quel rapporto di
predilezione. Si può anche dire così: nell'incontro con Gesù, il suo cuore si
rivela essenzialmente segnato dal desiderio di essere desiderato da quell'Amore
infinito e di poter entrare in un rapporto d'amore così.
Molti santi lo hanno detto, è stato l'incontro con la Bellezza , che affascina e
ci strugge dentro, e con un Bene, al quale si desidera essere uniti. In quel
momento, in effetti, il ragazzo riceve la promessa di una felicità possibile e
reale per lui, incomparabile ad altre gioie sperimentate. Il desiderio che
ignora se stesso è portato in piena luce: quasi ora si scorga nello sguardo
d'amore con cui Gesù lo fissa, riflettendosi in esso; oppure, vedendo ora il
suo stesso esser visto da Gesù. È la rivelazione del desiderio di Dio di amarlo
e insieme quella del suo desiderio che ora vive come desiderio di portare amore
all'amore di Dio; il desiderio umano che ignora se stesso si rivela a sé
nell'atto stesso in cui si compie.
È noto che il giovane ricco si allontanò da Gesù «triste»; pur avendo
compreso tutto l'amore di Dio, la sua libertà resistette. Questo fatto narrato
in modo molto preciso dai due evangelisti ci mostra con tutta evidenza che come
ogni rapporto d'amore, anche quello tra Gesù e l'uomo è l'incontro di due
libertà; e come è insondabile il Mistero della libertà divina, tal è anche il
mistero di ogni libertà umana: questa ha il potere di tenere in sospeso, per
così dire, la libertà d'amare di Dio stesso, di fare dipendere la sua libertà
dalla nostra e in qualche modo di farLo soffrire.
La prima generazione incredula
Possiamo dire
che la domanda posta da Gesù ai suoi discepoli e quella posta dal giovane ricco
a Gesù s'impongano con cogenza ai giovani del nostro tempo? Ne avvertono essi
tutta l'impellenza, la inevitabilità, secondo il convincimento di Kierkegaard?
Mi pare che si debba riconoscere con tutta onestà che, se cerchiamo di capire
con un minimo di esattezza chi siano in maggioranza questi giovani di oggi,
quale sia il loro profilo esistenziale e culturale, entrambe le questioni,
innanzitutto (in senso cronologico) e per lo più (in senso statistico), non si
pongono per nulla, possono essere giudicate semplicemente fuori luogo.
I ragazzi del nostro tempo, che possono essere i nostri figli e i nostri
fratelli, preadolescenti adolescenti e giovani, all'inizio del nuovo secolo,
appartengono a quella che, con espressione felice, è stata chiamata la «prima
generazione incredula», denotando così un loro tratto caratterizzante. Ma, più
nello specifico, essi sono segnati da un pervasivo, inedito senso di
«adiaforia», come si potrebbe dire con una categoria cara alla filosofia
ellenistica: si tratta di una loro generalizzata indifferenza verso ogni
aspetto del reale che non presenti un nesso subito percepibile con i propri
interessi immediati.
In modo notevole, questa indifferenza si rivela verso i sistemi valoriali
proposti dagli adulti, i loro genitori o gli insegnanti; pertanto, è con
esattezza che viene definita dagli educatori «adiaforia etica»: disposizione che riesce in un disinteresse generalizzato di
fronte alla domanda sul bene e sul male di ciò che s'incontra o si fa. Che cosa
sia il bene o il male, non è questione che si pone, né si avverte il bisogno di
chiederlo a qualcuno; domande come questa in effetti, non solo paiono non
essere al centro degli interessi dei giovani, ma sembra diventino per loro per
lo più insignificanti.
Ritornando allora alla prima questione che ci siamo posti, entrando in
dialogo con Kierkegaard, diciamo che appare improbabile che possa essere presa
sul serio dalla maggioranza dei giovani; può al più essere veramente
significativa per una minoranza, forse bisognerebbe scrivere per una élite, una
minoranza della minoranza. E mi limito qui a citare solo un dato, contenuto in
un'indagine psico-sociale sulla religiosità «dell'Italia cattolica nell'epoca
del pluralismo religioso», la risposta di un adolescente alla domanda
dell'intervistatore su cosa pensasse di Gesù: «Ne ho sentito parlare qualche volta…»,
ha detto il ragazzo, senza aggiungere altro, quasi volendosi subito toglier
d'impaccio.
L'icona del Volto di Cristo nel nostro oggi
Vorrei fare una
piccola chiosa, limitarmi qui ad una sola osservazione, che metto accanto a
quanto ho già scritto, quasi in modo discreto. Riportando quest'ultima risposta
del ragazzo intervistato nella citata indagine, mi è venuta in mente
un'affermazione della Beata Teresa di Calcutta, contenuta negli scritti
pubblicati qualche anno dopo la sua morte. La voglio ricordare in quanto mi
pare sia la più idonea per farci cogliere il carattere estremo di una risposta in apparenza un po' ingenua; nello stesso
tempo essa forse risulta utile anche per capire cosa si possa/si debba fare:
come possono questi giovani diventare
minimamente sensibili alle nostre domande, come riuscire a destare per esse un
qualche interesse, tale che aiuti a percepirne la decisività?
Ha lasciato scritto dunque la Beata Madre : se Gesù stesso decidesse un giorno
di venire per le strade di una nostra città, a Calcutta oppure a New York, se
scegliesse di parlare con quanti incontra, i derelitti che vivono in mezzo alle
strade dell'India, quegli uomini che nessuno ama, oppure gli affamati di senso,
quei giovani «poveri di cultura» delle grandi metropoli occidentali, ebbene
essi non lo riconoscerebbe: penserebbero semplicemente di soffrire di una nuova
allucinazione oppure immaginerebbero di avere di fronte una nuova trovata, un
nuovo mito del mondo dello spettacolo.
Se invece, continua la
Santa , a questi uomini è dato d'incontrare solo delle persone
in apparenza di poco conto, altri ragazzi o delle suorine cattoliche, senza
molta importanza ma animate dall' amore zelante di Gesù/per Gesù, e in nome di
questo riconoscessero tutti quelli che incontrano come fratelli e sorelle,
allora l'interesse per i loro gesti e per le loro parole potrebbe destarsi:
essi allora potrebbero accettare di ascoltare e di parlare, sarebbero disposti
a rispondere alle domande poste loro «in vece di Gesù».
Le difficoltà incontrate dai giovani di oggi, il loro disinteresse di
fronte alla domanda fatta da Gesù ai suoi discepoli nella regione di Cesarea di
Filippo, possono forse solo così sciogliersi. Dio nessuno lo ha mai visto e
Gesù è vissuto duemila anni fa in Palestina, nessuno di noi lo ha mai
incontrato. Possiamo però averne una qualche notizia, tale da farci percepire
la sua Presenza viva oggi in mezzo a noi solo grazie a quanti si sono posti
quella domanda e hanno accettato di credere a quanto Egli ha detto di sé
stesso. Nelle vite dei suoi discepoli può essere dato di scorgere qualche
tratto, reale anche se a volte sbiadito, del suo Volto; questi suoi discepoli
possono oggi formulare quella domanda, possono porcela con le stesse parole di
Gesù: voi chi dite «che sia il Figlio dell'uomo?»
I giovani disorientati della società adiaforica possono ritrovare interessante
la domanda su Gesù Cristo, non è niente affatto improbabile. Anche se venisse
percepita «solo» come una domanda su Dio, sulla sua esistenza e sul suo
rapporto col nostro essere, essa può presentarsi finalmente come la domanda più
importante che ci si possa porre: se Dio esiste infatti, tutto il resto perde
davvero ogni importanza, solo Dio merita di ricevere tutto il nostro interesse,
la mente il cuore la vita intera.
- Antonio Bellingreri - Professore ordinario di Pedagogia generale e sociale presso l’Università degli Studi di Palermo.
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