martedì 9 giugno 2015

EDUCARE I GIOVANI A RICONOSCERE GESU'

ANTONIO BELLINGRERI  *

Educare i giovani a riconoscere Gesù Cristo
Riflessioni nel cinquantesimo della Dichiarazione Gravissimum Educationis

  
«Chi dice la gente che sia il Figlio dell'uomo?»

Il grande filosofo cristiano Sören Kierkegaard ha avuto il merito, fra gli altri, di imporre la centralità e l'inevitabilità del giudizio personale su Gesù Cristo come cuore di ogni riflessione che possa essere condotta sulla modernità in generale e sulla propria attualità storica in particolare. Dopo questo evento, infatti, «anche gli increduli» sono in qualche modo costretti a prendere posizione di fronte a ciò che Gesù stesso ha detto di sé, di essere il Figlio di Dio, la Rivelazione definitiva del suo Mistero. Una celebre pagina del Vangelo di Matteo ripropone la domanda che il Maestro rivolge ai suoi discepoli nella regione di Cesarea di Filippo: «Chi dice la gente che sia il Figlio dell'uomo?» (Mt 16, 13), Essa è posta ad ogni uomo, anche a quanti non ne vogliono sapere, perché reputano di non essere interessati punto alla questione; costoro però, dice icasticamente Kierkegaard, già così esprimono il loro parere personale sul Cristo.
Si tratta, a ben vedere, di una domanda solo in apparenza semplice, in realtà mostra subito tutta la sua carica di paradosso, sol che si rifletta al commento che il Signore stesso fa della confessione di fede di Pietro: questi, dice Gesù , non avrebbe saputo dir nulla di suo, a proposito della verità che ha professato, se «il Padre stesso che è nei cieli» non glielo avesse rivelato. Di quale verità si tratta allora se quell'uomo, Simon Pietro, – ma, come lui, ogni uomo – ha bisogno di essere ispirato e illuminato, anzi «da Dio stesso generato», come si legge nel prologo di Giovani (Gv 1, 13)?


«Maestro buono, che cosa devo fare per acquistare la vita eterna?»

Ora, se Gesù è veramente «il Cristo, il Figlio del Dio vivente», secondo la risposta di Pietro e come Gesù stesso ha testimoniato di se stesso, cos'altro mai possiamo chiedergli, in che cosa Egli potrà istruirci? Per rispondere a questa nuova questione, si può ricorrere ad altre celebri pagine del Vangelo, questa volta di Marco e di Luca, laddove viene narrato l'episodio del giovane ricco (Mc 10, 17-27; Lc 18, 18-25). Possiamo immaginarci che questo ragazzo abbia ascoltato, o comunque abbia custodito nel suo preconscio spirituale, quella domanda decisiva di cui si è detto sinora; nel suo incontro però ora è lui a porre una domanda a Gesù: «Maestro buono, che cosa devo fare per acquistare la vita eterna?» (Lc 18, 18). Si può subito affermare che questa è forse la domanda più semplice, la più pertinente che si possa porre a Dio, credendo che Gesù stesso è il Figlio di Dio.
Ricostruiamo per un momento, sia pure a grandi tratti, il profilo esistenziale e culturale di questo giovane che interroga Gesù. Egli è benestante, la sua vita non dovrebbe aver mai incontrato difficoltà serie di sorta, almeno dal punto di vista materiale. Deve essere attratto però, in modo irresistibile, da Gesù; ne ha sentito parlare, deve averlo ascoltato, è certo che possa chiedere a Lui ciò di cui ha bisogno, per vincere un’inquietudine di fondo che pure lo segna. Si può essere ricchi infatti e percepire che non è così che si vive una vita piena, una vita intensa e davvero viva. Egli aspira a questa piena fioritura dell'esistenza, ad un suo compimento, ma non sa quale possa essere questa via o il segreto della sua felicità personale oggettiva. Egli, come ogni uomo in questo mondo, ignora se stesso, è afflitto pertanto da una inguaribile, a volte molesta, malinconia.
Nell'incontro con Gesù, accade qualcosa di inatteso, che immediatamente gli si presenta come strabiliante. Egli riceve una risposta, soprattutto però riceve, in un faccia a faccia decisivo con il «Maestro buono», che lo fissa negli occhi, un atto d'amore profondo e intenso: «Gesù, fissatolo, lo amò» (Mc 10, 21). Si è accostato a Gesù, lo si è detto, non perché non conosca la Legge, egli conosce la legge d'Israele, Mosé e i Profeti, ma ignora i recessi del suo cuore, non sa quale sia il segreto della felicità.
Ora, nell'incontro e grazie al suo sguardo, Gesù gli rivela una verità elementare, getta un fascio di luce potente nel suo essere profondo – mostrando che il Cristo lo conosce ed è, rispetto a questa intimità, più vicino a lui di quanto lui stesso possa esserlo. Nell'incontro il giovane ricco apprende che il suo essere profondo è essere-amato-da-Dio, perché di Lui è figlio prediletto; e per tale ragione, immediatamente egli percepisce di essere povero, privato come è stato sinora di questa conoscenza e di questo amore e insieme bisognoso di permanere in quel rapporto di predilezione. Si può anche dire così: nell'incontro con Gesù, il suo cuore si rivela essenzialmente segnato dal desiderio di essere desiderato da quell'Amore infinito e di poter entrare in un rapporto d'amore così.
Molti santi lo hanno detto, è stato l'incontro con la Bellezza, che affascina e ci strugge dentro, e con un Bene, al quale si desidera essere uniti. In quel momento, in effetti, il ragazzo riceve la promessa di una felicità possibile e reale per lui, incomparabile ad altre gioie sperimentate. Il desiderio che ignora se stesso è portato in piena luce: quasi ora si scorga nello sguardo d'amore con cui Gesù lo fissa, riflettendosi in esso; oppure, vedendo ora il suo stesso esser visto da Gesù. È la rivelazione del desiderio di Dio di amarlo e insieme quella del suo desiderio che ora vive come desiderio di portare amore all'amore di Dio; il desiderio umano che ignora se stesso si rivela a sé nell'atto stesso in cui si compie.
È noto che il giovane ricco si allontanò da Gesù «triste»; pur avendo compreso tutto l'amore di Dio, la sua libertà resistette. Questo fatto narrato in modo molto preciso dai due evangelisti ci mostra con tutta evidenza che come ogni rapporto d'amore, anche quello tra Gesù e l'uomo è l'incontro di due libertà; e come è insondabile il Mistero della libertà divina, tal è anche il mistero di ogni libertà umana: questa ha il potere di tenere in sospeso, per così dire, la libertà d'amare di Dio stesso, di fare dipendere la sua libertà dalla nostra e in qualche modo di farLo soffrire.


La prima generazione incredula

Possiamo dire che la domanda posta da Gesù ai suoi discepoli e quella posta dal giovane ricco a Gesù s'impongano con cogenza ai giovani del nostro tempo? Ne avvertono essi tutta l'impellenza, la inevitabilità, secondo il convincimento di Kierkegaard? Mi pare che si debba riconoscere con tutta onestà che, se cerchiamo di capire con un minimo di esattezza chi siano in maggioranza questi giovani di oggi, quale sia il loro profilo esistenziale e culturale, entrambe le questioni, innanzitutto (in senso cronologico) e per lo più (in senso statistico), non si pongono per nulla, possono essere giudicate semplicemente fuori luogo.
I ragazzi del nostro tempo, che possono essere i nostri figli e i nostri fratelli, preadolescenti adolescenti e giovani, all'inizio del nuovo secolo, appartengono a quella che, con espressione felice, è stata chiamata la «prima generazione incredula», denotando così un loro tratto caratterizzante. Ma, più nello specifico, essi sono segnati da un pervasivo, inedito senso di «adiaforia», come si potrebbe dire con una categoria cara alla filosofia ellenistica: si tratta di una loro generalizzata indifferenza verso ogni aspetto del reale che non presenti un nesso subito percepibile con i propri interessi immediati.
In modo notevole, questa indifferenza si rivela verso i sistemi valoriali proposti dagli adulti, i loro genitori o gli insegnanti; pertanto, è con esattezza che viene definita dagli educatori «adiaforia etica»: disposizione che riesce in un disinteresse generalizzato di fronte alla domanda sul bene e sul male di ciò che s'incontra o si fa. Che cosa sia il bene o il male, non è questione che si pone, né si avverte il bisogno di chiederlo a qualcuno; domande come questa in effetti, non solo paiono non essere al centro degli interessi dei giovani, ma sembra diventino per loro per lo più insignificanti.
Ritornando allora alla prima questione che ci siamo posti, entrando in dialogo con Kierkegaard, diciamo che appare improbabile che possa essere presa sul serio dalla maggioranza dei giovani; può al più essere veramente significativa per una minoranza, forse bisognerebbe scrivere per una élite, una minoranza della minoranza. E mi limito qui a citare solo un dato, contenuto in un'indagine psico-sociale sulla religiosità «dell'Italia cattolica nell'epoca del pluralismo religioso», la risposta di un adolescente alla domanda dell'intervistatore su cosa pensasse di Gesù: «Ne ho sentito parlare qualche volta…», ha detto il ragazzo, senza aggiungere altro, quasi volendosi subito toglier d'impaccio.


L'icona del Volto di Cristo nel nostro oggi

Vorrei fare una piccola chiosa, limitarmi qui ad una sola osservazione, che metto accanto a quanto ho già scritto, quasi in modo discreto. Riportando quest'ultima risposta del ragazzo intervistato nella citata indagine, mi è venuta in mente un'affermazione della Beata Teresa di Calcutta, contenuta negli scritti pubblicati qualche anno dopo la sua morte. La voglio ricordare in quanto mi pare sia la più idonea per farci cogliere il carattere estremo di una risposta in apparenza un po' ingenua; nello stesso tempo essa forse risulta utile anche per capire cosa si possa/si debba fare: come possono questi giovani diventare minimamente sensibili alle nostre domande, come riuscire a destare per esse un qualche interesse, tale che aiuti a percepirne la decisività?
Ha lasciato scritto dunque la Beata Madre: se Gesù stesso decidesse un giorno di venire per le strade di una nostra città, a Calcutta oppure a New York, se scegliesse di parlare con quanti incontra, i derelitti che vivono in mezzo alle strade dell'India, quegli uomini che nessuno ama, oppure gli affamati di senso, quei giovani «poveri di cultura» delle grandi metropoli occidentali, ebbene essi non lo riconoscerebbe: penserebbero semplicemente di soffrire di una nuova allucinazione oppure immaginerebbero di avere di fronte una nuova trovata, un nuovo mito del mondo dello spettacolo.
Se invece, continua la Santa, a questi uomini è dato d'incontrare solo delle persone in apparenza di poco conto, altri ragazzi o delle suorine cattoliche, senza molta importanza ma animate dall' amore zelante di Gesù/per Gesù, e in nome di questo riconoscessero tutti quelli che incontrano come fratelli e sorelle, allora l'interesse per i loro gesti e per le loro parole potrebbe destarsi: essi allora potrebbero accettare di ascoltare e di parlare, sarebbero disposti a rispondere alle domande poste loro «in vece di Gesù».
Le difficoltà incontrate dai giovani di oggi, il loro disinteresse di fronte alla domanda fatta da Gesù ai suoi discepoli nella regione di Cesarea di Filippo, possono forse solo così sciogliersi. Dio nessuno lo ha mai visto e Gesù è vissuto duemila anni fa in Palestina, nessuno di noi lo ha mai incontrato. Possiamo però averne una qualche notizia, tale da farci percepire la sua Presenza viva oggi in mezzo a noi solo grazie a quanti si sono posti quella domanda e hanno accettato di credere a quanto Egli ha detto di sé stesso. Nelle vite dei suoi discepoli può essere dato di scorgere qualche tratto, reale anche se a volte sbiadito, del suo Volto; questi suoi discepoli possono oggi formulare quella domanda, possono porcela con le stesse parole di Gesù: voi chi dite «che sia il Figlio dell'uomo?»
I giovani disorientati della società adiaforica possono ritrovare interessante la domanda su Gesù Cristo, non è niente affatto improbabile. Anche se venisse percepita «solo» come una domanda su Dio, sulla sua esistenza e sul suo rapporto col nostro essere, essa può presentarsi finalmente come la domanda più importante che ci si possa porre: se Dio esiste infatti, tutto il resto perde davvero ogni importanza, solo Dio merita di ricevere tutto il nostro interesse, la mente il cuore la vita intera.












  • Antonio Bellingreri - Professore ordinario di Pedagogia generale e sociale presso l’Università degli Studi di Palermo.



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